A grande richiesta di Tbj. È un raccontuccio che ho scritto qualche mese fa. In realtà avrebbe bisogno di una ristesura, ma è già tanto se m'è venuta voglia di postarlo.
(Sì, è tutto in minuscolo. E allora?)
L’UOMO CON IL CAPPELLO NERO
[div align=right] «Qui c'era un'epigrafe ma alla fine ho deciso di non metterla.»
(l'Autore)[/div]
l’uomo con il cappello nero scese dal treno di mezzanotte in una giornata dannatamente piovosa in cui grosse gocce di pioggia rendevano le strade scivolose e le persone malinconiche, e come risvegliatosi da un lungo torpore per via del viaggio, nella sua testa balenò infine un pensiero: si chiese perché era lì.
perché continuasse a tornare dalla sua famiglia dopo il lavoro quando la sua famiglia non lo ascoltava quando parlava — le rare volte che parlava e aveva qualcosa di dire, fosse una battuta, un annuncio, un “stasera sono fuori” —, rispondeva con “sì” mormorati senza prestare attenzione alle sue domande, e gli rivolgeva spontaneamente la parola solo per chiedergli il sale a tavola, ma ora la cara moglie aveva comprato un’altra saliera e il problema non si poneva più. a che pro, pensò l’uomo con il cappello nero, a che pro continuare a tornare dalla sua famiglia se non aveva neanche più il piacere di sentirsi rivolgere la parola, neppure per una cosa insignificante come il sale?
l’uomo con il cappello nero trascinò il suo corpo stanco di mezza età verso una delle panche verdi dell’anonima stazione, uguale a tutte le altre, sia come impostazione rigida, squadrata, dei tempi del fascismo, che come atmosfera ostile dei viaggiatori e del personale — gente comune, che aveva l'aria di volersi trovare da un'altra parte. giustamente: non c'era nulla in quella stazione che ispirasse fiducia o che una mente umana potesse decidere di trovare minimamente attraente.
davanti a lui passava davanti un mondo. c’erano gli studenti universitari che prendevano i notturni perché costavano meno. c’era chi aveva l’aria di dover fare un lungo viaggio, glielo si leggeva negli occhi, occhi ancora speranzosi di trovare qualcosa di interessante al mondo. c’erano le prostitute e gli spacciatori. c’era lui, che stava fermo per un poco su una panchina con un caffè in mano, prima di prendere la macchina per tornare a casa, per il puro piacere — uno dei pochi vizi che l'uomo col cappello nero si concedeva — di osservare la natura umana.
l’uomo con il cappello nero tirò fuori dalla tasca dei pantaloni sbiaditi, una volta erano neri e andavano di gran moda, ma quel tempo era ormai passato, tirò fuori un cellulare dallo schermo graffiato, anonimo anche quello, come non ne fanno più. lo accese e guardò fisso il display, su cui si leggeva l’orario, la carica della batteria e la copertura di rete. nessun avviso di messaggi né di chiamate non risposte. sebbene fosse in ritardo di ore, nessuno si preoccupava di sapere dov’era.
dopo anni di sottomissione un lampo di ribellione attraversò il fisico dell'uomo con il cappello nero. e l'uomo con il cappello nero lo colse al volo, per non pentirsi in futuro di non averlo fatto.
entrò nella sua auto che aveva posteggiato vicino alla stazione. dietro di lui, due automobili attendevano di poter usufruire di quel posto: enormi bestie di metallo che ringhiavano in competizione.
l’uomo con il cappello nero mise in moto e aprì una cartina dell’europa sporca di caffè che teneva vicino al parabrezza. al semaforo, quel dannato semaforo che gli faceva sempre perdere il treno, chiuse gli occhi e, con un mozzicone di matita, segnò un punto a caso. riaprì gli occhi: francia, parigi. bene, si disse, e ripartì, dato che il semaforo era verde da un pezzo e le altre automobili dietro scalpitavano.
l’uomo con il cappello nero pensò che i suoi amici gli avevano detto che parigi era proprio una bella città, la città dell’amore dicevano. l’uomo con il cappello nero aveva una cinquantina d’anni, credeva di amare una persona ma dopo vent’anni di matrimonio l’amore si era lentamente dissolto per lasciare spazio all’indifferenza. l’uomo con il cappello nero non credeva più all’amore, non credeva più in niente, non aveva più fiducia nella vita e non aveva più fiducia in se stesso. ma ora qualcosa era scattato.
pensò a se stesso da giovane. pieno di ideali, speranzoso, emotivo, con tanta voglia di cambiare il mondo e la ferma convinzione che prima o poi ci sarebbe riuscito, suonava le canzoni di bob dylan con la chitarra acustica che aveva comprato risparmiando per mesi e partecipava ai cortei contro la guerra nel vietnam.
poi si era sposato, il matrimonio l’aveva risucchiato completamente, era diventato un’ameba senza sentimenti né ideali. vent’anni dopo, dopo una riflessione a un’innocua stazione di paese, qualcosa era cambiato.
l’uomo con il cappello nero pensò che non sapeva cos’avrebbe fatto a parigi, ma pensò che si sarebbe “dato da fare”. avrebbe ricomprato una chitarra, avrebbe ricominciato a leggere il giornale non solo alla pagina dello sport, avrebbe anche preso a fare palestra e chissà, magari si sarebbe infatuato di una bella parigina di mezza età che chissà, magari l'avrebbe anche ricambiato. chiuse gli occhi e si immaginò la scena, e un largo sorriso si dipinse sulle sue labbra, un sorriso che non solcava quel volto da anni, forse decenni, e in quel momento
in quel momento un camion proveniente dall’altra parte, un camion che non sapeva che un uomo con il cappello nero era immerso nei suoi pensieri e aveva chiuso gli occhi guidando, incurante di tutto il resto, un camion centrò la fiancata sinistra dell’auto, al centro: la portiera si distrusse di netto, la macchina si ribaltò.
arrivarono i soccorsi e tirarono fuori dall’auto un uomo coperto di sangue, un uomo il cui cuore non batteva più, un uomo con il cappello nero che aveva esalato il suo ultimo respiro con un enorme sorriso sulle labbra.
la moglie, che ricevette immediatamente tramite telefono la notizia, non ne fu molto colpita.[/font][/size]